Shelabunia (Bangladesh)

Carissimi,
cinquantasette anni fa, esattamente alle ore locali 8 (e qualche minuto) del mattino, scendevo all’aeroporto di Calcutta, la grande capitale del Bengala.
Non avevo allora idea di quanto tempo mi sarebbe stato concesso, né tantomeno di immaginare la quantità e la qualità del lavoro che sarei riuscito a sviluppare. Mi era sufficiente, allora, l’aver raggiunto la terra di missione. Sentimenti che espressi a p. Amatore Dagnino, allora mio superiore religioso, manifestandogli che il mio solo desiderio era quello di trovare comprensione per i miei limiti.
La risposta di padre Dagnino fu per me sorprendente. Prima che io entrassi in noviziato, nel settembre 1942, egli aveva espresso qualche perplessità (d’altra parte era suo compito “testare” la bontà della mia scelta) sulla mia vocazione missionaria. Ma quel giorno la sua risposta fu questa, immediata: “Diventerai un grande missionario!”.
Oggi non so dire se sono diventato un grande missionario o meno. Certo non mi sento grande per tutto quello che ho fatto e si dice di me. Se ho una grandezza è per quello che è in me e che si esprime in una grande gioia e serenità, che nascono da quello che sta dentro di me e rimarrà, anche di fronte alla morte, non per quello che lascerò.
E oggi, se c’è un cruccio che mi tormenta, anche la notte, è il ricordo di tante mancanze, errori, pericoli corsi, più o meno gravi. Cose spiacevoli e paure passate, e che riecheggiano ancora nell’animo, che mi tengono in basso e non mi fanno insuperbire in mezzo a tanto clamore e a tante esaltazioni.
Un pensiero che mi stringe il cuore è il ricordo di papà e mamma, che sento sempre vicini e ai quali ho voluto dedicare il nuovo libro su Lalon, che uscirà in questo mese, inserendo quale “exergo”: “Alle due prime fonti della mia vocazione”. Quanto più lontano vado e tanto più i loro volti mi si illuminano davanti.
Se c’è qualcuno che ha il diritto di godere dei miei risultati, dei traguardi cui sono giunto, sono loro! La loro luce brilla sulla mia fronte: “fronte – kopal”, che nel contesto bengalese vuol dire fortuna, o meglio, quello che è scritto in fronte, come scrittura che si realizza ogni giorno: “oggi!” (cf Lc. cap. IV).
“Kopal” è una parola che uso spesso in risposta alle mille domande che mi rivolge la gente di qui. Al “perché sei in Bangladesh?”, rispondo: “kopal”. Al “perché tanto lavoro?”, rispondo: “kopal”. Al “perché mai ti hanno spinto qui giù, in fondo al Bangladesh, nel Sundorbon?”, ancora rispondo: “kopal”.
Ma quando mi domandano le ragioni del mio interesse per le scritture, per la letteratura, per la cultura (stupisce il mio interesse e la mia conoscenza, in particolare, di quelle bengalesi), allora rispondo che “è un dono che la Provvidenza mi ha fatto attraverso la ‘carne’ e il ‘sangue’ di mio padre e di mia madre!
Dovrei poi citare molte altre persone, ma preferisco tenerle nel segreto del mio cuore, con altrettanta riconoscenza.
In Cristo aff.mo p. Marino Rigon, sx